lunedì 18 maggio 2009

Immigrati

Riporto di seguito una bellissima lettera pubblicata su "Repubblica" del 14/5/09 nella rubrica di Augias.

"Caro Augias, legga: "Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina, spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere, ma soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali."
Dalla relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani, Ottobre 1912.

Gli italiani che emigravano in America non erano diversi, o se volete non erano visti diversamente, da come noi vediamo gli extracomunitari che vengono in Italia. Certi comportamenti non sono innati nella natura umana o tipici delle varie culture, ma derivano da una situazione contingente di povertà e sradicamento dal proprio paese.
Chi, potendo permetterselo non cambierebbe vestito tutti i giorni? Credete forse che usare gli stessi vestiti per settimane o vivere stipati in dieci in una stanza sia una scelta di vita? Chi riesce ad integrarsi nella società e a salire qualche gradino nella scala sociale scappa subito dalle baraccopoli!
Chi arriva in Italia dai paesi più poveri del mondo ci arriva solo coi vestiti che indossa e senza un soldo. Sta a noi italiani riuscire a dare loro un'opportunità di lavoro e di riscatto dalla povertà. Loro saranno molto più felici...ed anche noi :o)

domenica 10 maggio 2009

Mi vergogno di essere italiana

A 71 dalle leggi razziali contro gli Ebrei, e dopo infinite ipocrite manifestazioni delle autorità contro il razzismo i nostri ministri si vantano di aver rispedito in libia 500 disperati che cercavano di venire in Italia. Considerando le condizioni inumane in cui vengono tenuti dalle autorità libiche, la situazione non mi sembra molto diversa da quando gli Ebrei venivano consegnati ai nazisti. Gli italiani se ne sono lavati le mani allora e continuano a lavarsele oggi nonostante il ben triste destino di chi viene respinto e consegnato ai libici. Ancor peggio, si vantano dell'operazione con la quale si sono "sbarazzati" di 500 esseri umani che per i nostri cari governanti non sono altro che un rifiuto da smaltire.

Non mi sono mai vergognata tanto di essere italiana come oggi quando ho letto la testimonianza di un ragazzo nigeriano consegnato alle autorità libiche insieme ad altri 200 disperati:

http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/immigrati-6/testimone-nigeriano/testimone-nigeriano.html

Gli Italiani non hanno imparato proprio niente dalle tragedie della seconda guerra mondiale, ma continuano a comportarsi nello stesso modo. E' cambiato solo il bersaglio dell'odio e della discriminazione: CHE VERGOGNA!!!!

Parla un immigrato nigeriano "respinto" con altri duecento sulle coste della Libia
Il presidente del Consiglio dei rifugiati: "Non ci autorizzano ad entrare nei centri"

Dalla prigione l'appello dei dannati
"Ci trattano come bestie, salvateci"

dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO



LAMPEDUSA - "Due donne sono morte, sono morte poco dopo che siamo sbarcati a Tripoli dalle motovedette italiane. Erano sfinite, come tanti altri... Ci hanno lasciati sulla banchina, sotto il sole per ore e ore. E quelle due donne, trascinate sulla banchina, non ce l'hanno fatta. Altri due uomini sono in fin di vita. Aiutateci, veniteci a salvare, vi chiediamo di avere pietà. Ci sono altre donne e dei bambini, non lasciateci qui".

Il grido di dolore, di disperazione, arriva da una prigione libica, a Al Zawia, a pochi chilometri da Tripoli, dove da giovedì scorso si trovano rinchiusi decine di immigrati "respinti" dalle motovedette della Guardia di Finanza e dalla Guardia Costiera, che inizialmente li avevano soccorsi a bordo di tre barconi nel Canale di Sicilia. L'uomo che parla è un nigeriano, ha 22 anni, è con la moglie di 18 anni, che ha abortito dopo i giorni in mare e ora nella prigione libica. E tra le donne rispedite a Tripoli, due, come conferma Christopher Hein, presidente del Cir (Consiglio Internazionale per i Rifugiati) erano incinte.

"Una di loro - afferma Hein - era in gravi condizioni. Il rappresentante a Tripoli del Cir ha visto che è stata trasferita d'urgenza in un ospedale di Tripoli. Finora nessuno degli esponenti delle organizzazioni umanitarie ha avuto la possibilità di entrare nei centri e vedere cosa accade. Le autorità libiche non ci hanno concesso i permessi, le pratiche burocratiche sono lunghe e difficili. Sono seriamente preoccupato".
Ma come sono morte queste donne? Chiediamo al "prigioniero": "Sono morte alcune ore dopo essere state lasciate sulla banchina insieme agli altri. I militari libici trascinavano le donne che erano prive di sensi per la stanchezza mentre altri, anche loro svenuti, venivano lasciati a terra senza nessuna assistenza. Adesso ci hanno ammassato in queste prigioni, stanno separando i cristiani dai musulmani e abbiamo molta paura. La polizia libica e quella italiana lavoravano insieme, gli italiani ci hanno salvati ma poi ci hanno lasciati a Tripoli".

Il caos che regna dentro la prigione arriva anche alle nostre orecchie, l'uomo parla tentando di non farsi vedere dai militari libici. "Sono cattivi qui, non ci danno da mangiare, ci trattano come animali. Stiamo soffrendo tutti, in questo momento ci sono due uomini privi di conoscenza a causa della grande fatica che abbiamo affrontato e delle botte dei poliziotti. Vi preghiamo: fate qualcosa. Fateci andare via da qui, qualsiasi posto va bene per noi, abbiamo bisogno di voi ora, stiamo soffrendo".

Spesso la conversazione telefonica è disturbata, cade la linea, riproviamo a chiamare e per fortuna il "prigioniero" ci risponde.

Il suo nome è contenuto nella lunga lista dei 238 (e non 223 come detto dalle fonti italiane) extracomunitari rispediti in Libia, quasi tutti nigeriani, etiopi, eritrei e somali. Ci dice che è nigeriano e che, come tutti gli altri, prima di arrivare in Libia ha fatto un lungo viaggio con la moglie. "Siamo stati in Libia tanto tempo, ci maltrattavano, e quando finalmente ci hanno concesso di partire l'abbiamo fatto, ma è stato tutto inutile. Molti di noi sono morti durante la traversata del deserto e quelli che sono sopravvissuti speravano di avere finalmente raggiunto l'Italia".
Il nostro interlocutore ci comunica che uomini e donne sono rinchiusi in prigioni separate. "Anche mia moglie è stata portata via, ho paura che possano farle del male come spesso è accaduto a tante donne che sono state in Libia. Molte di loro vengono violentate e restano anche incinte. Mia moglie l'ho sempre protetta, ma adesso è sola e non so cosa possa accadere. Vi supplichiamo, aiutateci, non ci abbandonate".

La conversazione con il "prigioniero" nigeriano si conclude con una frase paradossale: "Grazie - dice al cronista - e che Dio vi benedica".

(10 maggio 2009)